L’ambiente Celeste

Posted on 22 ottobre 2012

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L’AMBIENTE CELESTE

Le stelle

Sembra che la Terra stia al centro di un’enorme sfera cava, sulla cui superficie vengono proiettati tutti gli astri. Questa sfera celeste sembra ruotare intorno a noi da Est verso ovest; in realtà è il nostro pianeta che ruota su se stesso da Ovest verso Est, girando attorno ad un asse terrestre, il cui prolungamento nello spazio, dalla parte del Polo Nord, sfiora la Stella polare

La Sfera celeste è utilizzata in astronomia per determinare la posizione di un astro rispetto alla terra. Per far questo occorre fissare alcuni elementi di riferimento: 

  • l’asse terrestre, che prolungato nello spazio, incontra la sfera nei poli celesti nord e sud;
  • lo Zenit, che è il punto in cui la verticale innalzata sopra la testa di un osservatore incontra la volta celeste, mentre il punto opposto si chiama Nadir;
  • Se si immagina di tracciare un piano perpendicolare alla verticale dell’osservatore, la sfera celeste viene tagliata secondo una circonferenza massima, chiamata orizzonte celeste, che la divide in un emisfero superiore ed uno inferiore;
  • il meridiano celeste del luogo di osservazione è la circonferenza massima su cui si trovano Polo nord e Polo sud celesti, Zenit e Nadir;
  • l’equatore celeste è una circonferenza che rappresenta il circolo massimo descritto dalle stelle nell’apparente moto di rotazione della sfera celeste intorno all’asse: tutte le stelle che non si trovano su questo circolo massimo descrivono giornalmente sulla sfera celeste delle circonferenze (paralleli celesti) di diametro via via sempre più piccolo quanto più sono vicine a uno dei poli.

Nel caso in cui l’osservatore sia al polo, la verticale coincide con l’asse terrestre e quindi lo Zenit corrisponde con un polo celeste; a sua volta l’orizzonte celeste coincide con l’equatore celeste.

 

Quando l’equatore celeste e l’orizzonte celeste non coincidono, la loro intersezione individua 2 punti, Est (oriente o levante) e Ovest (occidente o ponente), che segnano rispettivamente sull’orizzonte la posizione da cui sorge e tramonta un astro che percorra l’equatore celeste.

L’orizzonte è tagliato in altri 2 punti dal meridiano del luogo: il Nord e il Sud che si trovano ognuno dalla parte del polo celeste dello stesso nome.Questi 4 punti sono i punti cardinali.

 

Gli antichi fissavano la posizione di una stella servendosi di un angolo verticale (altezza) e di un angolo orizzontale (azimut); il primo indica l’altezza della stella sul piano dell’orizzonte, il secondo è quello tra la direzione del Sud e la direzione del punto in cui la perpendicolare calata dalla stella incontra l’orizzonte.

Oggi si misurano altri angoli considerando la terra puntiforme e riferendosi all’equatore celeste e al meridiano celeste che passa per un punto particolare (punto gamma) che si trova nella costellazione dell’Ariete.

 

Le più usate unità di misura delle distanze sono:

  • unità astronomica (U.A.): è usata in genere entro i limiti del Sistema solare e corrisponde alla distanza media tra terra e Sole, che è di circa 149 600 000 km;
  • anno-luce (a.l.): è la distanza percorsa in un anno dalla radiazione luminosa, ce si muove alla velocità di circa 300 000 km/s;
  • parsec (parallasse secondo, pc): è la distanza di un punto dal quale un osservatore vedrebbe il semiasse maggiore dell’orbita terrestre, perpendicolarmente, sotto l’angolo di 1”.

L’unità di misura parsec deriva dal metodo normalmente usato per determinare la distanza delle stelle, che si basa sulla misura dell’angolo di parallasse. Il termine parallasse indica lo spostamento apparente di un oggetto rispetto a un punto di riferimento molto lontano, quando l’oggetto viene osservato da 2 punti diversi. La parallasse risulta tanto maggiore quanto maggiore è la distanza tra i 2 diversi punti di osservazione; è per questo che in Astronomia si prende come base l’asse maggiore dell’orbita terrestre: le 2 osservazioni si fanno a 6 mesi di distanza, in modo che i 2 punti di osservazione siano distanti tra loro circa 300 milioni di km.

 

La diversa luminosità delle stelle è la caratteristica che ha suggerito di suddividere le stelle in classi sulla base del loro splendore, introducendo 6 ordini di grandezze: la prima grandezza per le più luminose, la sesta per le più deboli. Oggi il termine grandezza è sostituito da magnitudine e la luminosità di una stella viene misurata con appositi fotometri fotoelettrici. Tra ognuna delle classi stabilite dagli antichi astronomi vi è una differenza di luminosità di circa 2,5 volte.

Ci si è in seguito resi conto che alcuni corpi celesti risultavano più luminosi di quelli già inseriti nella prima classe; si è passati ad usare  anche la magnitudine 0 e le magnitudini negative.

Le stelle più deboli visibili ad occhio nudo sono di magnitudine 6,5 mentre le più moderne apparecchiature elettroniche arrivano a percepire stelle di magnitudine 30. 

Una stella appare più o meno luminosa soprattutto perché è più o meno lontana da noi. Le misure di cui abbiamo finora parlato si riferiscono alla magnitudine apparente (m); per conoscere invece la luminosità intrinseca di una stella, si ricorre alla magnitudine assoluta (M), che corrisponde alla luminosità che le singole stelle mostrerebbero se fossero poste a una distanza standard da noi pari a 10 parsec.

Il calcolo della magnitudine assoluta di una stella, a partire dalla magnitudine apparente (che si misura), richiede che si conosca la distanza della stella, ma questa si può misurare direttamente solo per un numero limitato di corpi celesti. Tuttavia esiste una caratteristica delle stelle, gli spettri, che consente di suddividerle in una serie di classi e si è potuto stabilire che stelle appartenenti alla medesima classe hanno, in media, la medesima luminosità intrinseca.

Non tutte le stelle hanno una magnitudine costante: ve ne sono diverse la cui luminosità si indebolisce e si accresce a intervalli regolari: sono le variabili pulsanti, o variabili intrinseche, che a cicli regolari emettono maggiore o minore energia. 

 

Una stella doppia è un sistema di 2 stelle che ruotano una intorno all’altra (o meglio ruotano intorno a un baricentro comune), in un piano tale che, viste dalla terra, si eclissano a vicenda a intervalli regolari: quando una delle 2 stelle viene occultata, la sua voce viene intercettata e noi osserviamo una diminuzione della luminosità complessiva del sistema.

In alcuni casi è possibile distinguere al telescopio i 2 componenti di un sistema (binarie visibili), altre volte una stella in apparenza singola si riconosce come doppia (variabili a eclissi); sono noti anche sistemi multipli, con 3 o più stelle associate.

Le stelle binarie vengono studiate attentamente perché dall’analisi delle loro orbite è possibile risalire alla loro massa; dall’analisi dei periodi di occultamento è invece possibile ricavare il diametro delle stelle.

 

Possiamo stabilire la composizione chimica delle stelle e di altri oggetti celesti. Lo studio dei corpi luminosi e lontani avviene in buona parte con esami spettroscopici. Con l’impiego di spettroscopi, un qualunque raggio luminoso dà origine a uno spettro, cioè a una striscia formata da bande con tutti i colori dell’iride oppure da una serie di righe luminose, la cui posizione e il cui numero dipendono dalla natura chimica della sorgente luminosa. Il tipo spettrale dipende dalla temperatura del corpo emittente e le stelle non hanno tutte la stessa temperatura, come rivelano in prima approssimazione i differenti colori con cui ci appaiono, strettamente legati alle temperature superficiali delle singole stelle. Le diverse temperature delle stelle si traducono in pratica in differenti tipi spettrali: le stelle vengono perciò classificate in una serie di classi spettrali, ordinate in funzione di valori decrescenti della temperatura. La classe spettrale O comprende le stelle a più alta temperatura superficiale, di colore bianco-azzurro, mentre la classe M raccoglie le stelle più fredde, di colore rosso. La luminosità delle stelle diminuisce al diminuire della loro temperatura, per cui è possibile risalire, dalla classe spettrale di una stella alla sua magnitudine assoluta. 

Le analisi spettrali hanno messo in evidenza una notevole uniformità nella composizione chimica delle atmosfere stellari, cioè della parte più esterna dell’ammasso di materia di cui è formata una stella. Per la maggior parte tale materia è costituita di idrogeno (H: 80%) e di elio (He: 19%), mentre la parte rimanente comprende tutti gli altri elementi chimici.

 

Le stelle si muovono nel firmamento, ma nella maggior parte dei casi il loro movimento è per noi impercettibile. Il movimento di una stella viene studiato controllando la posizione dell’astro rispetto a stelle circostanti e ripetendo l’osservazione a lunghi intervalli di tempo. La velocità di una stella che si sposta può essere stimata con sufficiente approssimazione se la direzione del movimento è perpendicolare alla linea che unisce l’occhio dell’osservatore alla stella stessa. Ma alcuni corpi si allontanano o si avvicinano a noi: in questo caso le stime sono fornite dalla spettroscopia attraverso l’applicazione dell’effetto Doppler.

 

Effetto Doppler: in una sorgente di luce che si allontana velocemente da noi, aumenta la lunghezza d’onda della luce che viene emessa. Come conseguenza, la stella ci appare più rossa di quanto sia in realtà.

Se il corpo celeste si avvicina, le righe del suo spettro si spostano verso il blu. In tale situazione una stella ci apparirebbe più blu di quanto non lo sia. L’entità dello spostamento permette di calcolare la velocità di tale movimento relativo: maggiore è l’effetto Doppler, maggiore è la velocità.

 

Negli spazi immensi che separano le stelle risultano diffusi polveri finissime e gas. Tale materia interstellare risulta spesso concentrata in ammassi di fine materia che hanno un aspetto simile alla nebbia e che vengono chiamati perciò nebulose:ammassi scuri perché privi di luce (nebulose oscure) o debolmente luminosi se attraversati dalla luce di stelle molto brillanti e molto vicine (nebulose a riflessione). Vi sono anche ammassi dotati di una tenue luce propria (nebulose ad emissione): sono essenzialmente gassosi ed emettono luce per un fenomeno di fluorescenza, provocato nei gas da radiazioni ultraviolette provenienti da qualche stella vicina. È da tale materia che si sono originate e continuano a formarsi le stelle.

 

L’enorme massa di gas ad alte temperature che forma il Sole è in equilibrio meccanico (non si espande né si contrae). Scendendo dalla superficie del Sole verso il suo interno, il peso dei gas che gravitano sugli stati sottostanti aumenta continuamente, e aumenta di continuo la densità dei gas, sempre più compressi: il Sole finirebbe per crollare su se stesso (collasso gravitazionale) se alla gravità non si opponesse la pressione interna dei gas, che tende a farli dilatare e che aumenta con la temperatura. L’equilibrio del Sole è dovuto proprio al progressivo aumento della temperatura dei gas con la profondità: al centro dell’astro la materia cambia caratteristiche: non esistono più legami molecolari e il gas è formato da elettroni liberi e da nuclei atomici. Tali nuclei sono essenzialmente di idrogeno e di elio e, a causa delle elevate temperature, sono in continuo veloce movimento: ogni tanto avvengono tra essi collisioni così violente da provocare una reazione di fusione termonucleare, che trasforma l’idrogeno in elio. 

 

Vi sono stelle azzurre molto più luminose e più calde del sole, che trasformano la loro materia in energia con un ritmo molto più rapido di quello della nostra stella; altre, rosse e, quindi, meno calde, consumano molto più lentamente il loro “combustibile nucleare”. Evidentemente anche le singole stelle hanno una loro evoluzione. Quello di cui disponiamo per ricostruire tale evoluzione, che si svolge nell’arco di tempi lunghissimi, è solo una specie di “istantanea” dell’universo.

La chiave per leggere l’istantanea del nostro universo è stata fornita dagli astronomi E. Hertzsprung e N.H. Russell, che hanno ideato un diagramma (diagramma H-R) in cui si possono collocare le varie stele, ponendo in ascissa la loro temperatura (da cui dipende il loro colore e la loro classe spettrale)e in ordinata la luminosità (posto il sole=1). Nel diagramma H-R le stelle non si distribuiscono a caso, ma in grandissima parte si raccolgono lungo una fascia, chiamata sequenza principale, disposte secondo un ordine regolare, mentre altre si riuniscono in gruppi che occupano settori specifici del diagramma. 

 

Le fucine delle stelle sono le nebulose, formate di polvere e gas freddi. È probabile che le stelle nascano dai cosiddetti globuli di Bok, addensamenti di grandi quantità di polveri e gas che appaiono come nuclei oscuri e nettamente circoscritti all’interno della diffusa luminosità delle nebulose. All’interno dei globuli possono innescarsi moti turbolenti che frammentano i globuli in ammassi più piccoli, all’interno dei quali la reciproca attrazione gravitazionale tra le particelle della nebulosa, costrette ad avvicinarsi, dà inizio ad un processo di aggregazione. Con il proseguire dell’addensamento e della contrazione, l’energia gravitazionale si trasforma in energia cinetica e di conseguenza aumenta la temperatura del corpo gassoso, che si trasforma in una protostella, da cui partono radiazioni infrarosse.

 

A causa della forza di gravità, la contrazione prosegue e il nucleo della protostella si riscalda; ma se la massa iniziale è scarsa la temperatura  non arriva a far innescare le reazioni termonucleari: la contrazione si arresta e il corpo si raffredda, lasciando un’oscura nana bruna (una stella mancata). Se invece la massa è sufficiente, continua a riscaldarsi, fino a raggiungere temperature di 15 milioni di K, sufficienti a far innescare il processo termonucleare di trasformazione dell’idrogeno in elio. Il calore liberato da tale reazione fa aumentare la pressione dei gas verso l’esterno, fino a compensare la forza di gravità: si giunge così a una fase di stabilità, durante al quale la stella, ormai adulta, si trova sulla sequenza principale del diagramma H-R.

 

Quando quasi tutto l’idrogeno è ormai consumato, il nucleo di elio che si è formato, molto più denso del nucleo di idrogeno originario, finisce per collassare; in tale processo si riscalda progressivamente fino a temperature di 100 milioni di K, sufficienti ad innescare nuove reazioni termonucleari, che trasformano l’elio in carbonio. Per l’alta temperatura l’involucro gassoso esterno della stella si espande enormemente: la superficie si dilata e si raffredda, finché la forza di gravità ferma l’espansione e si raggiunge un nuovo equilibrio. La stella è entrata in una nuova fase e appare come una gigante rossa; se l’espansione supera il punto di equilibrio, sarà seguita ben presto da una contrazione e poi da una nuova espansione, per cui le dimensioni della stella oscilleranno più volte, tanto che la stella sembrerà pulsante e apparirà come una variabile.

 

Dopo la fase di gigante rossa l’evoluzione stellare segue vie diverse a seconda della massa iniziale della stella:

  • Stelle con massa iniziale poco inferiore a quella del sole devono collassare, gradualmente, fino a divenire corpi delle dimensioni della terra, per cui la loro densità deve arrivare a milioni di volte quella dell’acqua e la materia si presenta in uno “stato degenerato”, con in nuclei degli atomi immersi in un “mare” continuo di elettroni. Sarebbe questa l’origine delle nane bianche, che, riscaldate dal processo di contrazione, ma prive di una fonte di energia nucleare, sono destinate a raffreddarsi lentamente.
  • Stella con massa iniziale come quella del sole o alcune volte maggiore finiscono ugualmente come nana bianche, ma prima attraversano una fase particolare. Arrivate allo stadio di giganti rosse, finiscono per espellere i loro strati più esterni che, trascinati via da un vento stellare, danno origine a nubi sferiche di gas in espansione. Tali involucri gassosi, che contengono parte degli elementi che si sono formati nel nucleo della stella centrale (idrogeno, elio, carbonio, ossigeno, azoto ecc..) vengono chiamati nebulose planetarie. Con la perdita dell’involucro esterno, la gigante rossa si trasforma in un nucleo rovente, che si contrae e si riscalda ulteriormente, a spese dell’idrogeno residuo. Dopo alcune migliaia di anni, la fusione nucleare si esaurisce e la stella inizia a raffreddarsi; alla fine la nebulosa scompare e la stella centrale, compatta e nuda, diventa una nana bianca. In alcuni casi si osservano vere e proprie esplosioni stellari, che si manifestano con un improvviso aumento di luminosità, per poi declinare e tornare ai livelli originari nel giro di un anno. Tali stelle sono dette novae. Una nova è un sistema binario di stele costituito da una nana bianca e da una gigante rossa; la nana bianca che ha maggiore forza gravitazionale risucchia idrogeno dall’altra stella e così riprendono le reazioni nucleari con questo improvviso aumento di emissione di energia (stella vampiro).
  • Se la massa della stella supera di almeno una decina di volte quella del sole le temperature interne arrivano gradualmente a miliardi di gradi, facendo innescare via via nuove reazioni termonucleari, fino alla formazione di un nucleo di ferro circondato da gusci concentrici, in cui prosegue la combustione nucleare di fosforo, silicio, neon, ecc. A questo punto il collasso si fa così rapido e violento da liberare un’enorme quantità di energia, che provoca un’immane esplosione: gran parte della stella, definita supernova, si disintegra e viene lanciata nello spazio. Il materiale che rimane dopo l’esplosione deve collassare per gravità, ma la massa della stella è ancora così grande che la contrazione fa assumere alla materia una densità inconcepibile. In tali condizioni la materia subisce un’ulteriore trasformazione: elettroni e protoni si fondono per formare neutroni e l’intera massa di una stella si concentra in un corpo di soli 20 o 30 km di diametro. Una stella di neutroni è difficilmente osservabile otticamente, ma è possibile individuarla per altre vie. È detta anche pulsar; emette tutte le radiazioni dello spettro elettromagnetico, tra cui onde radio, con un fascio bidirezionale che può colpire ritmicamente la terra (faro rotante).
  • Se la massa originaria della stella è qualche decina di volte quella del sole, dopo la fase di supernova il collasso gravitazionale non trova più forze sufficienti a contrastarlo: la contrazione prosegue, la densità continua ad aumentare e si forma un corpo sempre più piccolo, circondato da un campo gravitazionale immenso. È come se una porzione di spazio, non più grande di una decina di km, si trasformasse in un vortice oscuro in grado di attirare entro di sé e di far scomparire qualunque corpo o particella entri nel suo raggio d’azione: il buco nero.

 

L’energia delle stelle è dovuta a reazioni termonucleari, ma queste reazioni non producono solo energia; si originano infatti anche nuovi elementi, come l’elio. In stelle con massa maggiore di quella del sole si possono produrre via via tutti gli elementi chimici conosciuti, fino al ferro. Non possono formarsi invece elementi più pesanti: per la loro nascita servono energie e condizioni tali che si trovano solo nelle prime fasi dell’esplosione di una supernova. Questi elementi appena formati e subito dispersi nello spazio dalla violenta esplosione, finiscono per mescolarsi alla materia interstellare. Poiché la materia interstellare può concentrarsi localmente a formare le nebulose, quando da una nebulosa nasce una nuova stella, gli atomi di quegli elementi vengono “riciclati” ed entrano a far parte della massa del nuovo astro. Si spiega ora perché nella composizione del sole, che pure è ancora nella fase di trasformazione dell’idrogeno in elio, si riconoscano le tracce di oltre 60 elementi. 

 

Lo spazio celeste non appare uniforme, ma mostra grandi vuoti e numerose macchie biancastre di varie dimensioni: le galassie, ognuna formata da una grandissima quantità di stelle e da materia interstellare, qua e là concentrata in nebulose. A loro volta le galassie sono riunite in gruppi e supergruppi.  

La nostra galassia, oltre alle circa 6000 stelle visibili ad occhio nudo, comprende la Via Lattea, quella fascia di aspetto lattiginoso che disegna un cerchio massimo sull’intera sfera celeste. Essa ha la forma di un disco centrale (nucleo galattico) da cui si dipartono lunghi braci a spirale e comprende oltre 100 miliardi di stelle. Il sole occupa una posizione periferica, a circa 3/5 del raggio galattico, e si trova sul bordo esterno del “braccio di Orione”. Tutte le stelle dei bracci ruotano intorno al centro della Galassia, con velocità decrescenti dal centro alla periferia (per cui i bracci ci appaiono incurvati all’indietro rispetto alla direzione della rotazione). Il sole si dirige verso un punto della sfera celeste che è detto apice e che si trova nella costellazione di Ercole. Ci sono inoltre gli ammassi stellari, gruppi di stelle relativamente vicine tra di loro, che si muovono tutte insieme. Alcuni sono aperti, con le stelle distribuite in modo irregolare (Pleiadi), mentre altri sono globulari, con le stelle distribuite regolarmente  a disegnare una sfera. Le stelle di un ammasso globulare sono così fitte da essere difficilmente risolubili come singoli elementi; tuttavia il volume che ognuna occupa è ancora tale che le probabilità di collisione tra stelle sono in pratica nulle. Gran parte degli ammassi si trova al di fuori del disco della galassia e forma una specie di nuvola sferica, molto rarefatta, chiamata alone galattico. Nell’alone mancano le polveri, per cui non vi si possono formare altre stelle; lungo la Via lattea invece nuovi astri continuano a formarsi. 

 

Ognuna delle altre galassie è formata, come la nostra, da centinaia di miliardi di stelle, riunite in sistemi di varia forma. Alcune galassie sono ellittiche, altre a spirale, come la Via Lattea o come Andromeda; altre ancora sono galassie a spirale sbarrata: il loro nucleo appare attraversato da una sbarra da cui partono le spire. Vi sono inoltre galassie globulari, con le stelle addensate in forma di globo sferoidale, più fitte al centro, più rade alla periferia; e galassie irregolari, che non hanno forma definita ma variabile da caso a caso. Fra quelle citate per la loro forma, ve ne sono di peculiari, distorte forse per l’attrazione con galassie vicine: sono infatti collegate da giganteschi ponti di materia interstellare luminosa.

Il numero totale di galassie visibili, fino alle più deboli, è di qualche centinaio di miliardi; rilevamenti statistici di tali oggetti hanno permesso di stabilire che la distanza media tra 2 galassie è di circa 2,5 milioni di anni-luce. In realtà le galassie tendono a riunirsi in gruppi: nel raggio di circa 3 milioni di anni-luce dalla Via Lattea si trovano una trentina di galassie, che formano il Gruppo Locale, ma si conoscono numerosissimi ammassi galattici, che comprendono ognuno da centinaia fino a migliaia di galassie. Tali ammassi sono circondati da ampi spazi vuoti e le galassie che li compongono sono legate gravitazionalmente tra loro; la Via Lattea fa parte dell’ammasso della Vergine, intorno al cui baricentro essa ruota insieme alle altre galassie del gruppo Locale. Infine, sono stati identificati i superammassi di galassie, estesi per centinaia di megaparsec. La distribuzione nell’universo di ammassi e superammassi non è però uniforme: sono stati individuati ampi volumi di spazio privi di materia visibile; l’Universo sembra avere una struttura cellulare o spugnosa

 

Nell’universo sono presenti numerose radiosorgenti: alcune corrispondono a supernovae, altre sono risultate galassie molto lontane ma con emissione così intensa da venire indicate come radiogalassie. Dallo spazio ci arrivano anche altri segnali, che ci hanno rivelato la presenza di oggetti straordinari, alcuni dei quali si trovano addirittura negli abissi di spazio al di là delle galassie più lontane scoperte finora. Quei segnali sono emissioni radio di grandissima intensità e fortemente concentrate provenienti da corpi di apparenza stellare, denominati quasar. Le righe dello spettro di questi oggetti risultano fortemente spostate verso il rosso, cioè essi sono in allontanamento. L’intensità dei segnali che arrivano a noi indica che un quasar è mille miliardi di volte più luminoso del sole, molte volte più splendente di un’intera galassia. Eppure tutta questa energia si libera da un corpo molto più piccolo di una galassia.

 

Il sistema solare

Il sistema solare è un insieme di corpi (detti corpi celesti) diversi tra loro per natura e dimensioni, ma accomunati per l’origine e costretti a muoversi in uno spazio ben definito, “governato” dalla forza gravitazionale del Sole.

Il sistema solare comprende: una stella di modeste dimensioni, il Sole; i suoi 9 pianeti; almeno 63 satelliti principali e numerosi anelli di materiali in frammenti che ruotano intorno ai pianeti; migliaia di asteroidi (o “pianetini”), piccole masse concentrate in un’ampia fascia che circonda il sole; una quantità di frammenti di varia origine e natura: tali frammenti, se attratti dalla terra tanto da attraversarne l’atmosfera, si arroventano per attrito e possono o bruciare completamente, come le meteore, ovvero consumarsi solo in parte, nel qual caso il loro nucleo colpisce il suolo come meteorite; e, infine, numerose piccole masse ghiacciate che si muovono all’estrema periferia del sistema solare e che solo occasionalmente o periodicamente si avvicinano al centro, manifestandosi sotto forma di comete. Lo spazio tra i vari corpi celesti non è completamente vuoto: vi si trova, estremamente rarefatta, la cosiddetta “materia interplanetaria”, formata da pulviscolo, gas e frammenti subatomici (protoni ed elettroni liberi).

 

Il Sole

Il Sole ruota intorno a un proprio asse, ma con velocità diversa a seconda della latitudine: minore ai poli e crescente verso l’equatore. Il sole è una potentissima fonte di energia, che viene irradiata in ogni direzione dello spazio. Un metro quadrato della superficie della terra riceve dal sole, quando questo è allo Zenit, energia, soprattutto sotto forma di luce e calore, per una potenza di circa 1000 W. La potenza per unità di superficie è detta costante solare.

 

Possiamo suddividere la struttura del sole in una serie di involucri concentrici, pur tenendo presente che, essendo tutti gassosi, non esistono tra di essi limiti netti:

  • l’interno del sole, formato da un nucleo avvolto da una zona radiativa, che passa a sua volta a una zona convettiva; esso contiene quasi tutta la massa solare e non è accessibile all’osservazione diretta;
  • la superficie visibile, denominata fotosfera;
  • l’atmosfera, distinta in 2 strati: cromosfera e corona.

 

Nel cuore del sole è in funzione un reattore nucleare a fusione mantenuto stabile dalla forza di gravità. A quella profondità la pressione gravitazionale dell’enorme involucro di materiali sovrastanti è in grado di contenere la violenza esplosiva delle reazioni termonucleari, fatte innescare da temperature elevatissime, prossime a 15 milioni di gradi kelvin. Si è individuato un nucleo che è la zona di vera produzione di energia, in cui aumenta continuamente l’elio a spese dell’idrogeno. L’energia in esso prodotta si trasmette verso l’esterno con un processo di radiazione che interessa l’involucro gassoso circostante, chiamato zona radiativa, in cui gli atomi  dei gas assorbono ed emettono energia, ma, per la minor temperatura, non danno luogo a reazioni nucleari. A minor profondità i gas, per la minore pressione, diventano meno stabili e si innescano giganteschi movimenti convettivi (movimenti di materia che sale e scende secondo tragitti ciclici attivati da differenze di temperatura). Il trasporto di energia avviene quindi per convezione e questo involucro di gas più esterno viene chiamato zona convettiva. La trasformazione di idrogeno in elio è in atto nel sole da almeno 5 miliardi di anni, ma la quantità di idrogeno del nucleo è tale che occorreranno altri 5 miliardi di anni perché il nucleo diventi tutto di elio e la combustione nucleare dell’idrogeno si arresti. Interverranno allora altre trasformazioni, che segneranno l’inizio della fine della nostra stella, destinata a divenire una gigante rossa.

 

Le particelle prodotte dalla fornace nucleare raggiungono la superficie della sfera di materia solare e diventano visibili come fotosfera. La fotosfera è l’involucro che irradia quasi tutta la luce solare e corrisponde al disco luminoso del sole. La superficie della fotosfera non è liscia, ma presenta una struttura a granuli brillanti (granulazione). Questi granuli segnano l’affiorare di gigantesche bolle di gas molto caldi e corrispondono alla parte sommitale dei movimenti in atto nella sottostante zona convettiva. Ogni granulo dura solo pochi minuti, ma il movimento di tutti i granuli fa sembrare la superficie della fotosfera in continua ebollizione. La superficie brillante della fotosfera non è omogenea, ma appare costellata da macchie solari, continuamente variabili per dimensioni, per forma e per numero. Sono piccole aree scure depresse rispetto alla superficie circostante, nelle quali si distingue una zona centrale più scura (ombra) circondata da una fascia più chiara (penombra). In realtà tali strutture appaiono scure solo per contrasto con la fotosfera, rispetto alla quale la loro luminosità è ridotta a 1/3. Le macchie appaiono in genere a gruppi, raramente sono isolate: per un certo tempo dopo la loro comparsa, le macchie aumentano di dimensioni e di numero, poi cominciano a ridursi fino ad estinguersi, mentre nascono e si sviluppano altri gruppi di macchie. L’osservazione sistematica della superficie solare ha messo in evidenza che il numero di macchie non è costante, ma passa da valori minimi a valori massimi, con una periodicità che ha permesso di individuare un ciclo di 11 anni.

 

La cromosfera è un involucro trasparente di gas incandescenti che avvolge la fotosfera. È visibile per un breve tempo durante un’eclissi totale di Sole: la cromosfera appare allora come un sottile alone roseo, il cui bordo esterno è sfrangiato in numerose punte luminose, dette spicole: esse appaiono come un prolungamento verso l’alto dei moti turbolenti dei granuli della fotosfera.

La corona è la parte più esterna dell’atmosfera solare ed è formata da un involucro di gas ionizzati sempre più rarefatti man mano che ci si allontana dalla sottostante cromosfera. La sua luminosità è così bassa che la corona si può osservare direttamente solo durante un’eclissi totale, quando assume l’aspetto di un tenue alone con una luminosità pari a metà di quella della luna piena. Nella parte più estrema della corona le particelle ionizzate hanno velocità sufficienti per sfuggire all’attrazione gravitazionale del sole e si disperdono perciò nello spazio come vento solare.

 

Esistono però altri aspetti molto vistosi dell’attività della parte più esterna del sole, che ne possono modificare sensibilmente lo stato normale: le protuberanze e i brillamenti. 

Le protuberanze sono grandi nubi di idrogeno che si innalzano dalla cromosfera e penetrano nella corona. Hanno forma di immense fiammate, di vortici, di archi giganteschi; sono molto più calde della cromosfera, ma fredde rispetto alla corona solare entro cui si spingono.

I brillamenti (o flares) sono violentissime esplosioni di energia, veri e propri lampi di luce intensissimi associati a potenti scariche elettriche: compaiono di tanto in tanto in prossimità di grandi gruppi di macchie e nel giro di pochi minuti si propagano su un’area di milioni di kmq, per poi estinguersi. Nel corso di tali esplosioni la temperatura può raggiungere parecchi milioni di gradi e vengono liberate enormi quantità di energia, con un’ampia gamma di radiazioni, dai raggi X alla onde radio. Oltre a radiazioni di carattere ondulatorio, i brillamenti possono lanciare getti di materia gassosa incandescente, ma soprattutto emettono un intenso flusso di particelle atomiche (elettroni e protoni). Nel caso dei flares più intensi, si osserva anche l’emissione di un’ultraradiazione (o radiazione cosmica), formata da particelle ad altissima energia che si propagano a velocità prossima a quella della luce. Quando un flare esplode presso il centro del disco solare, nel giro di 26 ore il flusso di particelle raggiunge il nostro pianeta. I velocissimi corpuscoli di origine solare colpiscono con violenza le particelle ionizzate dell’alta atmosfera terrestre, soffiandole verso la bassa atmosfera, dove danno origine alle aurore polari (boreali e australi). La forma del campo magnetico terrestre fa sì che le particelle, elettricamente cariche, possano penetrare nell’atmosfera soltanto nelle zone prossime ai poli magnetici, dove, ionizzando gli atomi presenti, provocano l’emissione delle luci polari. Dopo un brillamento, queste zone dell’atmosfera terrestre rimangono in stato di eccitazione per parecchi giorni. Contemporaneamente alle aurore polari, si verificano forti perturbazioni nel campo magnetico terrestre, chiamate tempeste magnetiche, anch’esse legate alle perturbazioni nella ionosfera, provocate dall’attività solare.

 

L’interno del sole è costituito per almeno il 98% da idrogeno ed elio allo stato di plasma. I due elementi sono presenti in quantità uguali, mentre elementi più pesanti non rappresentano complessivamente che il 2% della massa totale. La natura degli strati più esterni del sole è stata definita attraverso l’analisi spettrografica: essi sono composti per l’85% di idrogeno, per circa il 15% di elio e per la restante frazione di elementi più pesanti. Tra questi ultimi sono stati riconosciuti quasi tutti gli elementi noti sulla terra.

 

Il primo a riconoscere che i pianeti ruotano intorno al sole fu Copernico, che, con il suo sistema eliocentrico, rivoluzionò in modo definitivo la concezione di Tolomeo, che poneva la terra al centro dell’universo. Secondo Copernico, però, i pianeti seguivano orbite circolari: fu Keplero a stabilire che i pianeti percorrono invece orbite a forma di ellisse, di cui il sole occupa unno dei fuochi.

 

Il movimento dei pianeti attorno al sole è regolato dalle tre leggi di Keplero

  1. I pianeti descrivono orbite ellittiche, quasi complanari, aventi tutte un fuoco comune in cui si trova il sole. Il senso della rivoluzione intorno al sole è in genere antiorario per un osservatore che si trovi al polo nord celeste.
  2. Il raggio che unisce il centro del sole al centro di un pianeta (raggio vettore) descrive superfici con aree uguali in intervalli di tempo uguali. Le aree sono perciò proporzionali ai tempi impiegati a percorrerle, per cui un pianeta si muove più velocemente quando è più vicino al sole (al perielio) e più lentamente quando è più lontano (all’afelio).
  3. I quadrati dei tempi che i pianeti impiegano a percorrere le loro orbite (periodi di rivoluzione) sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal sole. Vale a dire che la velocità media di un pianeta è tanto minore quanto più esso è lontano dal sole. 

 

Fu Newton a intuire l’esistenza di una forza di attrazione tra i corpi e a descriverne gli effetti attraverso la legge della gravitazione universale, in base alla quale due corpi si attirano in modo direttamente proporzionale alla loro massa e in ragione inversa al quadrato della loro distanza. A causa della forza di gravità ogni corpo celeste viene attratto dalle masse circostanti (e a sua volta le attrae). Un pianeta subisce perciò una forte attrazione da parte del sole, relativamente vicino e dotato di grande massa, mentre è debolmente attratto dagli altri pianeti ( di piccola massa) e dalle stelle circostanti (molto lontane); tali azioni impediscono al pianeta di muoversi con velocità costante e in linea retta, e lo costringono in pratica a una continua caduta verso il sole, il cui risultato è l’orbita ellittica. Data l’influenza della massa, l’azione prevalente sui singoli pianeti è quella del sole, ma tutti gli altri pianeti fanno sentire l’azione della propria massa, che si rivela nelle perturbazioni, cioè nelle deviazioni della forma delle orbite da ellissi perfette.

 

Affinché un veicolo spaziale possa svincolarsi dalla terra (come da un qualsiasi altro corpo celeste), senza rimanere prigioniero di un’orbita, è necessario imprimergli una velocità iniziale uguale o superiore alla velocità di fuga. Questa velocità dipende dalla massa del corpo celeste e dalla sua distanza. Una volta raggiunta o superata la velocità di fuga, il veicolo può proseguire indefinitamente nello spazio per inerzia. In tali condizioni la traiettoria del veicolo spaziale può venire modificata solo dall’avvicinarsi di un altro corpo celeste. La forza di attrazione di quest’ultimo farebbe accelerare gradualmente la navicella e ne modificherebbe il percorso: a seconda della traiettoria di avvicinamento, la navicella potrebbe venir attirata fino a cadere sulla superficie del pianeta o fino a rimanere in orbita attorno ad esso, oppure fino ad arrivare ad una minima distanza dal pianeta con velocità superiore a quella di fuga: in tal caso, dopo averlo sorvolato si allontanerebbe da esso rapidamente, lanciata lungo una nuova traiettoria da una specie di fionda planetaria, che sfrutta l’energia gravitazionale.

 

Oltre alle diverse temperature, anche le masse tra loro differenti hanno condizionato l’evoluzione, fino alla struttura attuale, dei singoli pianeti: si usa distinguere la “famiglia dei pianeti piccoli” o di tipo terrestre (Mercurio, Venere, Terra e Marte) e la “famiglia dei pianeti giganti” o di tipo gioviano o solare (Giove, Saturno, Urano e nettuno). Plutone, di cui si conosce ben poco, non rientra in nessuna delle due distinzioni. La differenza più evidente tra i 2 gruppi di pianeti è nelle dimensioni: il diametro del pianeta terrestre più grande (la terra) è circa ¼ di quello del pianeta gioviano più piccolo (Nettuno). Altra caratteristica differente è la densità: nei pianeti terrestri è in media 5 volte superiore a quella dell’acqua, mentre in quelli gioviani arriva solo a 1,5 volte o meno. La densità dipende in gran parte dalla natura dei materiali che costituiscono i pianeti e che si possono distinguere in 3 categorie: gas, sostanze rocciose (minerali silicatici e ferro metallico) e ghiacci (in prevalenza ammoniaca, metano, anidride carbonica e acqua).

Mercurio, Venere, Terra e Marte sono piccole sfere di rocce e metalli che orbitano vicino al sole. La massima parte della massa planetaria risiede nei 2 maggiori pianeti gioviani (Giove e Saturno), formati in prevalenza di idrogeno ed elio, con quantità variabili di ghiacci (metano e ammoniaca), assieme ad una certa quantità di materiale roccioso. I pianeti terrestri hanno atmosfere tenui o ne sono privi, mentre quelli gioviani hanno atmosfere dense (formate in prevalenza di idrogeno ed elio). Questa è una conseguenza della massa dei singoli pianeti e della loro distanza dal sole: la grande massa dei pianeti gioviani trattiene più facilmente le molecole dei gas. Venere, Terra e marte riescono a trattenere solo le molecole dei gas più pesanti e le loro atmosfere sono una frazione infinitesima della massa totale. I pianeti terrestri hanno pochi o nessun satellite, mentre quelli gioviani ne hanno numerosi, oltre ad altre strutture particolari, come gli anelli

 

Intorno al sole ruotano innumerevoli altri corpi:

  • Gli asteroidi (o pianetini) sono localizzati in gran parte tra le orbite di Marte e Giove, dove formano la fascia degli asteroidi. Alcuni gruppi hanno orbite che si avvicinano a quella della terra o addirittura la intersecano. La loro superficie, almeno nei maggiori, è segnata da numerosi crateri da impatto. Oltre agli innumerevoli corpi che ruotano nella fascia degli asteroidi, vi è un migliaio o più di pianetini che ruotano, con stabilità, nell’orbita di Giove: sono i Troiani, divisi in 2 gruppi, uno che precede (i veri Troiani) e l’altro che segue (i Greci) il grande pianeta. Il grande interesse con cui si studiano gli asteroidi è legato alla loro origine. L’ipotesi oggi più coerente con il quadro del sistema solare è quella di un’origine “planetesimale” cioè per graduale aggregazione di corpi minori, così come sarebbe avvenuto nella formazione dei pianeti. Nell’attuale fascia degli asteroidi, però, tale aggregazione sarebbe stata interrotta da qualche meccanismo non ancora ben chiaro, ma legato a perturbazioni gravitazionali provocate dalla massa di Giove. 
  • Il termine meteoroide indica gli innumerevoli frammenti di materiale extraterrestre sparsi nel sistema solare in orbita attorno al sole, troppo piccoli per essere chiamati asteroidi o comete. Quando un meteoroide si avvicina all’orbita della terra, può essere attratto dal nostro pianeta e attraversare l’atmosfera: l’attrito lo rende incandescente e lo fa evaporare e il fenomeno dà origine a una scia luminosa che viene chiamata meteora (o stella cadente); se il corpo è abbastanza grande da non venire tutto consumato dall’attrito, il materiale che raggiunge la superficie costituisce una meteorite. Mentre meteore isolate si osservano tutto l’anno, a intervalli precisi compaiono sciami di meteore, le spettacolari “piogge di stelle” con centinaia di meteore all’ora. Essi si formano quando la terra attraversa il pulviscolo disseminato da una cometa lungo la sua orbita. Le note “lacrime di san Lorenzo” sono meteore che compaiono ogni anno intorno al 12 agosto, quando la Terra attraversa le polveri disseminate lungo l’orbita della cometa Swift-Tuttle. Le meteoriti note vanno da 1g a oltre 10 tonnellate; particelle più piccole possono venire rallentate senza bruciare e depositarsi sulla superficie come polvere: sono chiamate micrometeoriti. Le meteoriti maggiori raggiungono la superficie con impatti violentissimi; a volte esplodono rompendosi in numerosi frammenti o vaporizzandosi completamente. Nell’urto producono nel suolo una cavità semisferica, detta cratere da impatto. La natura delle meteoriti è di grande importanza: si ritiene che la maggior parte di esse provenga dalla fascia degli asteroidi, dove violente collisioni scagliano numerosi frammenti in ogni direzione, e quindi anche lungo traiettorie che passano vicino alla Terra. In base alla composizione mineralogica, le meteoriti si dividono in 3 gruppi:
  1. lititi, simili a rocce;
  2. sideriti, metalliche (essenzialmente ferro in lega con nichel);
  3. sideroliti, miscuglio di materiale roccioso e metallico.

Alle lititi appartengono le cosiddette condriti, contenenti tipiche sferette di aspetto vetroso, di dimensioni millimetriche, chiamate condrule, e derivate dal rapido raffreddamento di gocce fuse della “polvere” della nebulosa da cui è nato il sistema solare. Le condriti hanno in maggior parte un’età di circa 4560 milioni d anni (l’età attribuita al sistema solare) e non mostrano tracce di trasformazioni, per cui sono il miglior campione della composizione media del materiale da cui si è originato il sistema solare. Altri tipi di lititi sono invece meno antiche e simili a certe rocce magmatiche terrestri e si sono formate per raffreddamento di materiale che in precedenza aveva subito una totale fusione: sono in gran parte frammenti del parte esterna di qualche asteroide o di un corpo maggiore, come la Luna e Marte. Le sideriti sono probabilmente frammenti del nucleo metallico di piccoli asteroidi completamente frantumati da qualche collisione.

  • Le comete sono formate da gas e vapori congelati (acqua, metano, ammoniaca, anidride 
  • carbonica), misti a piccoli frammenti di rocce e metalli. Si muovono lungo orbite molto allungate, molte delle quali arrivano ben oltre Plutone. Quando si avvicinano al sole, le radiazioni fanno sublimare i gas congelati, che trascinano con sé le polveri imprigionate nei ghiacci; attorno ad un nucleo si forma un alone rarefatto e luminoso, la chioma. Successivamente, in quasi tutte le comete si sviluppa la coda, un velo brillante che si allunga per milioni di chilometri in senso opposto alla direzione del sole, provocato dal pulviscolo spinto dalla luce solare in direzione radiale. Ad ogni passaggio intorno al sole una cometa perde una parte di massa e col tempo diviene meno luminosa, fino ad estinguersi. Dal nucleo parte anche una seconda coda, di colore azzurro, formata da gas ionizzati che vengono incanalati e trascinati via dal campo magnetico solare. Lungo la loro orbita le comete lasciano una larga fascia di pulviscolo, che, se viene attraversato da un pianeta con atmosfera, dà origine agli sciami di meteore. La ricostruzione delle orbite delle comete a lungo periodo, con tempi di percorrenza dell’orbita di oltre 200 anni e che percorrono distanze grandissime, portò l’astronomo olandese J. Oort a ipotizzare che tali corpi siano distribuiti nello spazio a formare una specie di alone sferico intorno al sole e ai pianeti. La nube di Oort inizia all’esterno del sistema di pianeti e si estende per oltre 100000 U.A. In quello spazio, migliaia di miliardi di nuclei ghiacciati si muovono lentamente su orbite lontanissime dal sole; quei nuclei sono così debolmente legati al sole che il passaggio ravvicinato di una stella provoca delle perturbazioni nel loro moto, in grado di scagliarli verso lo spazio interstellare o di farli deviare su orbite che li portano in prossimità del sole e dei pianeti, dove si manifestano con la tipica attività delle comete. Ma esistono altre comete, quelle a breve periodo (meno di 200 anni) che provengono invece dalla parte più interna della nube, nota come fascia di Kuiper, una specie di ciambella molto schiacciata disegnata da almeno un miliardo di corpi che orbitano ben al di là dei pianeti, che costituiscono un’estensione del sistema planetario. Essi ruotano in prossimità del medesimo piano ideale su cui si muovono le orbite dei pianeti, mentre gli altri corpi della nube ruotano con piani variamente orientati. Le stime indicano che la nube di Oort dovrebbe contenere 6000 miliardi di nuclei. A quelle distanze dal sole la materia originale era troppo rarefatta per condensarsi; si ritiene invece che i nuclei si siano formati nella regione dei pianeti giganti, tra Giove e Nettuno, che li avrebbero scagliati verso la periferia del sistema solare (con un meccanismo di fionda planetaria), facendoli accumulare nella nube di Oort. 

 

Incontro ravvicinato con la cometa Halley

La più famosa tra le comete con breve periodo di ritorno (cioè minore di 100 anni) è la cometa di Halley. La sua orbita si allunga fin oltre Plutone e il suo passaggio intorno al sole avviene ogni 76 anni circa. È stato possibile rintracciare in vari documenti le registrazioni dei suoi passaggi, risalendo indietro nel tempo fino al 239 a.C. Ma il passaggio più importante è stato quello del 1682: in base ai dati raccolti in quell’occasione, l’astronomo inglese E. Halley concluse che la cometa percorreva un’orbita ellittica, per cui sarebbe ricomparsa, secondo i suoi calcoli, dopo 76 anni. I suoi calcoli furono confermati dal ritorno della cometa nel 1758. Il passaggio più recente della cometa di Halley è stato il 9 febbraio 1986; alle normali osservazioni astronomiche da terra si sono aggiunte analisi ravvicinate da parte di 5 sonde spaziali automatiche, che hanno intercettato l’orbita della cometa. Una di queste ha attraversato la chioma di Halley, passando a soli 600 km circa dal nucleo. Il nucleo della cometa è apparso come una specie di “patata” irregolare lunga al max 14 km e larga 7km, con un volume di circa 500 km3 e una densità molto bassa. Ruota lentamente su se stesso, mentre da più punti della parte di superficie rivolta verso il sole partono getti luminosi che si perdono nello spazio. Il resto della superficie, di colore grigiastro, mostra alcune strutture in rilievo o depresse. La composizione sembra riferibile a un miscuglio di polveri che intrappolano sostanze in grado di sublimare rapidamente quando il sole riscalda la superficie del nucleo: si formerebbero così i getti luminosi. La cometa di Halley si sta allontanando dal sole, dopo aver perso un altro po’ della sua massa. Se niente modificherà la sua orbita, tornerà a visitarci nel 2026.

 

Origine ed evoluzione dell’universo

Nel 1929 E. P. Hubble osservò negli spettri di alcune decine di galassie un sistematico spostamento verso il rosso. Il rosso negli spettri di galassie che si trovano a distanze note aumenta con l’aumentare di tali distanze; poiché è noto che lo spostamento verso il rosso è maggiore quanto maggiore è la velocità dell’oggetto che si osserva, ne consegue che le galassie si stanno allontanando con velocità tanto più alta quanto più sono lontane [Legge di Hubble: la formula della legge è v/d=H  dove, v è la velocità di allontanamento (km/) e d è la distanza in Mpc. H  è la costante di Hubble ed è evidente l’importanza di conoscerne il valore con precisione: non solo perché misurando v per una galassia (dallo spostamento verso il rosso del suo spettro) si può ricavare la sua distanza, ma anche perché il valore 1/H  ha le dimensioni di un tempo e potrebbe indicarci quanto tempo fa l’Universo era praticamente un punto. Il valore di H  è noto ancora con un ampio margine di incertezza, tra 80 e 50]. Ciò si può spiegare se si ammette che l’Universo è in espansione nella sua globalità, per cui ogni oggetto che ne faccia parte si allontana da ogni altro per il progressivo dilatarsi dello spazio. 

La fisica propone un principio cosmologico, in base al quale, su vasta scala, l’universo dovrebbe essere immutabile e uniforme; se viene esteso nel tempo, tale principio vuol dire che l’universo deve apparire in media sempre uguale (principio cosmologico perfetto), per cui cambiamenti ed evoluzione avrebbero significato locale e si compenserebbero statisticamente nel tempo e nello spazio. Su tale principio si basava la teoria dell’universo stazionario formulata nel 1948 da H. Bondi, T. Gold e F. Hoyle. Il reciproco allontanamento delle galassie, cui conseguirebbe una diminuzione della densità media dell’universo, verrebbe compensato da una continua creazione nello spazio di nuova materia, la cui aggregazione finirebbe per produrre nuove galassie in sostituzione di quelle ormai lontane. La teoria ha incontrato però alcune difficoltà, a cominciare dalla mancanza di qualunque conferma sulla possibilità di formazione di nuova materia. Inoltre il conteggio degli oggetti lontanissimi, quindi molto indietro nel tempo, sembra indicare un aumento della densità media dell’universo nel lontano passato, e non una condizione stazionaria.

Negli anni Venti del XX secolo A. Friedmann descrisse un universo in continua evoluzione a partire da uno stato primordiale caldo e denso, attraverso un iniziale big bang. Esaminiamo tale teoria nell’elaborazione nota come modello dell’universo inflazionarlo, sviluppata all’inizio degli anni 80 del XX secolo. All’inizio del tempo, nell’istante zero, l’Universo doveva essere concentrato in un volume più piccolo di un atomo, con una densità pressoché infinita e a una temperatura di miliardi e miliardi di gradi. Questo nucleo primordiale di energia pura in un determinato istante si è squarciato con un’esplosione immane. Non c’era un “fuori”, cioè uno spazio esterno in cui potesse dilatarsi un’esplosione, ma lo spazio si generò insieme all’espansione. Si sarebbe verificata una violentissima espansione che, nel giro di 10   secondi, avrebbe fatto aumentare il volume dell’universo di miliardi e miliardi di volte, mentre la temperatura sarebbe scesa rapidamente fin quasi allo zero assoluto. Al termine della fase di inflazione, mentre si sarebbe liberata una gran quantità di calore, la sfera di fuoco avrebbe preso ad espandersi con ritmo più lento. Nei primissimi istanti l’energia cominciò a condensarsi prima in particelle elementari (quark ed elettroni), poi in particelle maggiori (protoni e neutroni), finché dopo i primi tre minuti, quando la temperatura scese a 10  K, si formarono i primi nuclei atomici (idrogeno, litio ed elio). Ma per un lungo tempo l’universo rimase un’impenetrabile nube di radiazioni e di gas ionizzato (nuclei di elio, protoni, elettroni). Solo quando, dopo 300 000 anni, la temperatura scese a circa 3000 K gli elettroni furono catturati dai nuclei e si formò un gas neutro, formato di idrogeno e, in piccola parte, di elio. Con la formazione di idrogeno neutro la materia si separò nettamente dalla radiazione; da quel momento la luce poté viaggiare liberamente nello spazio. La radiazione emessa dalla sfera di fuoco ad alta temperatura irraggiava in ogni direzione. 

Dopo il primo miliardo di anni la temperatura è ormai quella di una qualsiasi stella, e la materia è fatta di idrogeno, elio, elettroni, protoni e fotoni. Nelle regioni di spazio in cui il gas è più denso, la gravità fa condensare l’idrogeno in gigantesche masse, entro le quali cominciano a lampeggiare le violente esplosioni dei quasar. Mentre l’espansione dell’universo continua, i quasar diventano più rari, e si fanno sempre più numerose enormi galassie a spirale, formate da miliardi di stelle, in continua evoluzione. Nei nuclei delle stelle e nelle esplosioni delle supernovae si formano via via gli elementi chimici più pesanti, che, sotto forma di ceneri, finiscono per mescolarsi alle polveri e ai gas delle nebulose, dove nascono nuove popolazioni di stelle. Tra queste circa 5 miliardi di anni fa si è acceso il sole.

 

Come proseguirà l’evoluzione dell’universo?  Il modello del big bang consente questa estrapolazione, ma la previsione è ostacolata dall’incertezza con cui conosciamo la densità media della materia di cui è costituito l’universo. Se il valore della densità fosse quello definito critico, l’espansione rallenterebbe tendendo a zero, ma senza mai giungervi. Le ricerche finora effettuate indicano però che la materia identificabile sembra giustificare solo l’1% de valore critico. Si è tenuto conto della materia oscura, cioè di pianeti, nane brune, buchi neri e così via, ma anche così si arriverebbe solo al 10% del valore critico. Forse la materia mancante può essere rappresentata dai neutrini, particelle di grande energia e velocità, con massa piccolissima, che vengono prodotti in grande quantità in molte reazioni nucleari e che hanno solo debolissime interazioni con la materia “usuale”: basti pensare che un neutrino può attraversare tutto il corpo della terra senza apprezzabili effetti. Se la densità è inferiore al valore critico, l’espansione continuerà senza fine, le stelle consumeranno tutto il loro combustibile e le galassie diventeranno sistemi oscuri di corpi freddi e inerti. Tra 10  anni solo i buchi neri continueranno ad accrescersi a spese delle stelle rimanenti, finché tra 10   anni, i buchi neri rimarranno le uniche concentrazioni di massa. Ma anche i buchi neri sembrano produrre una debole radiazione, per cui, sia pure nel giro di miliardi di miliardi di anni, finiranno per dissolversi. Tra 10   anni, in uno spazio enormemente dilatato, buio e vuoto, resteranno a vagare solo poche particelle, su orbite tra loro infinitamente lontane. Ma se la densità è superiore a quella critica e la forza di gravità riuscisse a frenare l’espansione dell’universo, allora si può pensare che le galassie finiranno per arrestare la loro fuga e per invertire il loro movimento, dando inizio a una contrazione dell’universo. La temperatura tornerebbe ad aumentare, le stelle si riaccenderebbero e si farebbero più calde, gli elementi pesanti si disintegrerebbero e anche idrogeno ed elio si dissolverebbero in energia e tutto precipiterebbe nello stato primordiale.

 

Origine ed evoluzione del sistema solare

La formazione del sistema solare iniziò almeno 10 miliardi di anni dopo il big bang, sviluppandosi all’interno della galassia. A quel tempo in uno dei bracci dell’immensa spirale una “nube solare” si avvia alla contrazione, al collasso e alla rotazione, fino al disporsi in forma di disco. La contrazione crea calore, il nucleo denso e caldo diviene un primitivo sole, altre parti rimaste nella nube vanno a formare pianeti e satelliti. Questa ipotesi, detta monastica, perché fa derivare tutto da un solo ammasso nubiforme, è stata formulata da Cartesio. Dopo un secolo, G. L. Leclerc de Buffon espose una delle ipotesi dette dualistiche: da un sole già esistente, una cometa strappa, passandogli vicino, grossi frammenti che diventano pianeti e satelliti. I. Kant e P. S. de Laplace riproposero la vecchia teoria monistica su basi rinnovate: la nebulosa solare originaria aumenta la velocità di rotazione in proporzione alla contrazione del gas per conservare “il momento della quantità di moto”: per l’aumentata velocità si separano anelli che formeranno pianeti e satelliti. Nel 1901 J. Jeans prospettò l’ipotesi di una stella che sarebbe passata in vicinanza del sole primitivo, provocando in esso un enorme onda mareale: la materia risucchiata dal sole non sarebbe sfuggita alla forza gravitativa e, rimanendo in orbita, si sarebbe condensata nei pianeti. Ipotesi tuttavia adatte solo alle conoscenze astronomiche di allora.

 

Il sistema solare fino a poco prima di 4,6 miliardi di anni fa nel settore oggi occupato dal sistema solare doveva estendersi una grande nebulosa, cioè una fredda e rarefatta nube di gas e polveri finissime. La composizione chimica di quella nebulosa doveva comprendere, oltre all’idrogeno e all’elio, anche una certa quantità di tutti gli altri elementi. Poiché sappiamo che gli elementi più pesanti dell’idrogeno si formano attraverso le reazioni termonucleari in atto nelle stelle e si disperdono nello spazio nei processi di formazione delle nebulose planetarie, delle novae e delle supernovae, dobbiamo presupporre che processi analoghi si siano verificati a spese di stelle più antiche del sole e che parte dei loro resti si siano via via aggiunti ala composizione originaria della nebulosa. La nebulosa continuò ad arricchirsi di elementi pesanti finché una causa sconosciuta (forse l’onda d’urto dell’esplosione di una supernova vicina) ne perturbò la struttura, costringendo una vasta porzione della nube a collassare su se stessa in un vortice gigantesco. Nella progressiva contrazione e con il crescere della velocità di rotazione, la nube assunse la forma di un disco appiattito, nel cui centro si andò accrescendo un nucleo sempre più denso e caldo, detto proto-Sole. All’interno del disco, ripetute collisioni tra granuli di ghiacci e di polveri portarono all’aggregazione di corpi via via maggiori, che, a loro volta, andarono ripetutamente frantumandosi per riaggregarsi poi in corpi di dimensioni sempre più grandi, i “planetesimali”.

Il riscaldamento progressivo del proto-sole impedì l’accumulo di ghiacci nei corpi più vicini. I corpi più interni si accrebbero soprattutto per l’aggregazione di rocce e metalli; invece a distanze maggiori, quantità sempre maggiori di ghiacci si aggiunsero ai materiali rocciosi. Con il tempo i proto-pianeti raggiunsero una massa critica, capace di catturare e trattenere giganteschi involucri di gas (idrogeno, elio, ammoniaca, metano). Con l’aumento della massa e del proprio campo gravitazionale, i singoli pianeti ripulirono ognuno un ampio corridoio di spazio lungo la propria orbita; la maggior parte delle polveri e dei gas finì però per andare ad accrescere la massa del proto-Sole, nel cui interno la continua contrazione fece crescere la temperatura fino al punto di innescare le prime reazioni nucleari, con le quali nacque la nuova stella. Alla sua accensione, il sole emise una gigantesca esplosione di energia, che investì l’intero sistema: è la cosiddetta fase T Tauri, durante la quale un vento stellare spazzò nello spazio interstellare i gas e le polveri residue, insieme a buona parte della massa stessa del sole. I pianeti si erano ormai formati. Il gigantesco Giove costrinse numerosi asteroidi a seguire orbite che riportavano all’interno del sistema, dove si verificò quella lunga fase di “bombardamento cosmico”. Al grande bombardamento parteciparono numerose comete, i cui impatti riportarono sui pianeti interni l’acqua, che era stata soffiata via dal vento solare quando i pianeti si stavano aggregando. Nello stesso periodo iniziò l’evoluzione dei singoli pianeti. Quelli più interni, da Mercurio a Marte, per il calore generato dai numerosi impatti con gli asteroidi che cadevano sulla loro superficie e per quello liberato nel loro interno dal decadimento di materiali radioattivi arrivarono ad una fusione quasi totale: nella massa fluida gli elementi più pesanti, soprattutto ferro e nichel, sprofondarono verso il centro dei pianeti, dove formarono nuclei metallici ad alta densità, mentre gli elementi più leggeri (come silicio, ossigeno, calcio, sodio, potassio) migrarono per “galleggiamento” verso la parte esterna dei pianeti, dando origine a mantelli di ossidi e silicati. Nella fase di fusione e surriscaldamento si liberarono anche grandi quantità di materiali gassosi e di vapori, che si unirono a quelli liberati dagli impatti di comete: Mercurio, il più caldo e di massa minore, non riuscì a trattenere nessuna traccia di gas o vapori; Marte, più freddo e di massa un po’ più grande, si ricoprì di un sottile involucro di anidride carbonica; Venere e Terra, in posizione intermedia e di massa decisamente maggiore, riuscirono a conservare un notevole involucro atmosferico formato dai gas più pesanti (anidride carbonica, azoto) e di acqua allo stato di vapore. Queste atmosfere non saranno però quelle definitive, in quanto nella successiva evoluzione di quei pianeti le loro condizioni subiranno altre modifiche. Anche i giganti Giove e Saturno ebbero una lunga evoluzione ma con notevoli differenze. A causa delle maggiori distanze dal sole, le loro masse raccolsero quantità assai maggiori di frammenti di ghiacci (acqua, anidride carbonica, metano, ammoniaca) e aumentarono fino ad essere in grado di trattenere gli elementi più leggeri: i loro nuclei di rocce e di ghiacci si rivestirono così di enormi involucri ricchi di idrogeno ed elio, dense atmosfere alla cui base, per l’enorme pressione, lo stesso idrogeno si è raccolto a formare anche oceani liquidi. Evoluzione analoga ebbero anche Urano e Nettuno, ma per le minori dimensioni hanno trattenuto molto meno elio. Su Plutone si è formato un involucro di ammoniaca e di metano solidi, ma, a causa della massa molto ridotta, non si è conservata traccia di atmosfera. Anche la schiera dei satelliti sembra aver seguito l’evoluzione dei pianeti cui sono legati. La formazione dei satelliti deve essersi verificata per aggregazione di materiali costretti a ruotare, dalla forza di attrazione, intorno ai corpi cresciuti più rapidamente. I satelliti dei pianeti giganti, in particolare, sono in genere sfere di ghiacci, forse con nuclei rocciosi , e tutti sono in pratica privi di atmosfera, a causa della loro ridotta massa. Lontano dal sole, dove il vento solare aveva spinto i materiali meno densi, insieme ai pianeti giganti si andavano aggregando nello spazio miliardi di nuclei ghiacciati. La forza dei pianeti giganti influenzava le orbite di quei nuclei, attirandone alcuni sulla propria superficie e scagliandone altri verso l’esterno, dove si accrebbe via via la fascia di Kuiper e cominciò a formarsi la nube di Oort.

 

 

     

  

 

 

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